“L’azione come amore per l’azione stessa.” di Marco M.

L’azione come amore per l’azione stessa

La Bhagavad Gita, come molti testi religiosi antichi, è fonte di notevoli intuizioni che vanno però riviste con la sensibilità di una coscienza maturata ed una cifra linguistica mutata. 
Propongo qui di seguito l’interpretazione di uno dei più notevoli versetti del testo.  

“L’uomo superiore è quello che, controllando i sensi con la mente, si dedica con distacco all’azione per Amore dell’azione stessa”.

Per prima cosa, l’uomo superiore è del tutto assimilabile all’oltre uomo di Nietzsche: è colui che trascende la macchina biologica (corpo e mente) e identifica esperienzialmente se stesso con l’anima o comunque con un’entità trascendente.

Per comprendere appieno la correttezza della traduzione, sarebbe necessario conoscere il Sanscrito. Tuttavia, se l'edizione italiana in mio possesso fosse accurata, l'autore avrebbe commesso un errore nel versetto citato. Non è la mente che controlla i sensi, ma la coscienza che controlla la mente ed i sensi come un tutt’uno. Messa come sopra, sembrerebbe un verso di un testo dell’orrido illuminismo. La mente è un meccanismo biologico, un mezzo potentissimo che va allenato, ma colui che si identifica con essa rimane perso. Nell’essere liberato (oppure superiore o che è andato oltre a sé stesso) l’azione è spontanea e in sintonia con il qui ed ora, slegata dalle piccole necessità egoiche. Colui che è libero non agisce per uno scopo e rimane l’unico giudice di sé stesso.

Osservando più attentamente, si comprende che l'azione di un essere liberato diventa parte integrante del tutto, apparendo come un'azione priva di un centro. L'attore, colui che agisce, svanisce nell'assenza di intenzionalità.

Ciò che rimane è solo la lieve brezza ed il profumo del nulla.  

m.m.

alessandra quattordio