Gli ostacoli, i problemi e quella meraviglia chiamata vita
Sono atterrato negli US con Emanuela a Portland, Oregon, il 22 Settembre. Come prima tappa del nostro viaggio avevo scelto una località amena chiamata Austin, non quella in Texas ma un paesino di 200 abitanti vicino alle montagne del Toiyabe nel Nevada, che ho conosciuto grazie a un romanzo di Don Winslow e che mi aveva affascinato per la sua bellezza e la sua desolazione.
Partiamo al mattino presto perchè ci aspettano circa 1000 km da percorrere. Primo contrattempo: non abbiamo la macchina con il GPS però decidiamo di fregarcene decidendo di scaricare man mano delle cartine quando troviamo una wifi. Questo rende ogni incrocio un piccolo problema ma ci mantiene più attivi e svegli. Riusciamo a cavarcela e verso l’ora del tramonto ci mancano solo 160 km, con Austin che ci aspetta in fondo alla strada senza più deviazioni. Imboccandola stupidamente non facciamo benzina convinti che l’avremmo trovata più avanti, per scoprire dopo poco di essere in mezzo ad un deserto: non passano macchine, non ci sono abitazioni, non c’è nulla. Cerco di capirci qualcosa e scopro che il cruscotto segna 30 km di autonomia di carburante, quando ce ne mancano 70 per arrivare. Il tramonto è bellissimo e contemporaneamente si leva la luna da dietro le montagne e la nostra playlist spara “Common People” dei Pulp. Presi dall’adrenalina del momento e dalla bellezza del paesaggio fermiamo la macchina e ci mettiamo a ballare in mezzo alla strada con le falene che sembrano ballare con noi, drogate dalle luci dei fari della macchina. Finita la canzone ritorniamo in macchina con un solo dubbio e due opzioni: che fare? Metterci a bordo strada e dormire dove siamo aspettando il mattino per chiedere soccorso o continuare?
Decidiamo per la seconda ipotesi proseguendo piano con l’intenzione di avvicinarci il più possibile ad Austin. Passiamo un’ora andando pianissimo con la convinzione che ci saremmo fermati in qualsiasi momento e pronti a buttarci lato strada per non rimanere in mezzo. Grazie probabilmente alla macchina con un serbatoio fatto per dementi e nessun intervento soprannaturale raggiungiamo il paese dove dal benzinaio incontriamo tre esseri quasi umani di sesso maschile. Cerchiamo poi un hotel/motel: tutto chiuso e spento, non un’anima, sembra non viverci nessuno. Unica insegna accesa un bar che sembra uscito da un film di cento anni fa. Entriamo per chiedere informazioni e mangiare qualcosa dato che non abbiamo mangiato nulla dal pranzo ma aprendo la porta vediamo solo un vecchio scalzo e più sudicio di noi che guarda la televisione con una scatoletta di latta aperta in mano. Sembrava di essere a casa sua e non in un locale.
Scopriamo essere il proprietario (ed unico avventore) che ci chiede se vogliamo da bere perché non ha altro. Prendiamo una birra e lui inizia a parlarci fitto: ci racconta che è serbo emigrato, che ha vissuto in Italia, di come ha girato il mondo e che l’unico modo di fallire è non provarci. Sembra un fiume in piena. Ad un certo punto ci riempie tre shot, che sembrano delle birre medie, fino all’orlo con un liquore serbo, raccomandandoci che va buttato giù d'un fiato. Eseguiamo e appena bevuto partiamo per la stratosfera (stomaco vuoto con jetlag di 9 ore e 1000 km sulle spalle). Approfittiamo dell’ingresso di un altro avventore per uscire prima del prossimo missile/shot. Il paese più vicino è ad altri 100 km che a questo punto non ci sentiamo di fare. Ci apprestiamo a dormire in macchina quando un'anziana cinese (quinta persona ed unica donna vista) ci chiede se stiamo cercando una camera: si era sparsa la voce. Quando spengo la luce penso che abbiamo avuto mille contrattempi ma che è stata una giornata favolosa.
Organizzare e pianificare avrebbe tolto tutto ciò che ha reso la giornata straordinaria. Le fobie dell'imprevisto rendono la vita piatta, asettica: una vita senza problemi con ogni giornata noiosamente uguale all’altra è una occasione persa. Vivere significa forse saper rischiare e, come dice il serbo, l’unico fallimento possibile è non provarci neppure.